Ero sul divano con mio padre, spazio
pubblicitario tra le corse eterne su circuito, quando ancora la domenica era “Messa
e Formula 1”; parliamo di molti anni fa, e per quanto “molti” possa far
sorridere - data la mia giovane età e la mente ancora acerba – ieri per la
prima volta, cercando di ricordare il nome di uno stupido programma a quiz che
vedevo da bambina nel lettone con mamma (sì, un infanzia davanti alla tv),
qualcuno ha avuto la brillante intuizione di sottolineare come stessimo
parlando di “venti anni fa”. Mi è preso un colpo apoplettico, e per superare la
cosa sono ora costretta a sottolineare i “molti anni fa’”
Spazio pubblicitario dicevamo, Michael
Schumacher che era ancora un bell’uomo, io
più interessata agli spot che all’effettivo protagonista del pomeriggio.
Ricordo le immagini forse di un liquido color caffè e di una bella donna, e poi
di un qualche “motto”, seguito dal brand del prodotto pubblicizzato, e il tutto
nella mia testa non creava alcun senso, non esisteva alcun tipo di quadro
generale, non capivo. Così mi rivolsi a chi tutto vede e tutto sa, “papà”. ‘Come
si fa a spingere qualcuno a comprare qualcosa cheneanchesicapiscechecos’è, che
hanno a che fare quelle immagini con quel liquidocolorcaffè, cos’è-chi è-che
vogliono da me?’. E il papà che tutto vede e tutto sa mi rispose, forse
omettendo il fatto che un paio di belle tette hanno sempre a che fare con il
vendere e il comprare, mi rispose dicendomi “Bella de papà, l’unica cosa che
puoi sapere è che da adesso in poi non dimenticherai quella pubblicità”.
Comunicazione, pubblicità,
commercializzazione e commerciabilità, e dopo quasi vent’anni io che ancora non
ho imparato a ben vendermi, torno a sbatterci - ficozzo pieno in testa.
Chiave uno: il target. “Sanno chi siamo, sanno
forse cosa vogliamo, sicuramente sanno come comunicarcelo”. Il che non è bene e
non è male, ad altri il compito di filosofeggiare e criticare, a noi (o a me)
basta per il momento constatare “l’assoluta supremazia” del valore comunicativo.
‘Si pensi a un orologio, a un’auto o
anche, ormai, e un’architettura. Si compra prima la narrazione, l’utopia di
vita, poi la forma e si dà assolutamente per scontato che il prodotto funzioni.
Il contenitore stravince sul contenuto’(A. Saggio).
Chiave due: il linguaggio – tra ambiguità e
simbolo.
Scrive De Fusco: ‘(..) Tutto ciò
riconosciuto, la tecnoideologia oggi imperante si presta ad alcuni equivoci che
vanno chiariti’.
Rispondono Stefano Mirti e Walter Aprile: “(..)
Questa tecnoideologia imperante non solo si presta ad alcuni equivoci, ci
sembra che si possa dire che essa stessa
si fondi su una serie articolata di equivoci e ambiguità. Senza equivoci e
ambiguità, non avremmo nessuna tecnoideologia imperante. Non siamo però del
tutto sicuri che l’operazione di chiarimento sia la più utile e/o appropriata.
(...) Il lavoro sull’ambiguità, sull’errore, su comunicazioni che arrivano
distorte, disturbate, devastate, è incredibilmente interessante”.
Come a dire “Ah (riconosco), ok (accetto),
daje (costruisco)”
E io torno a sorridere e vorrei costruire
anch’io.
Parliamo di mezzi (o soluzioni?) che
portano all’apertura di infinite spirali interpretative, percettive, materiali.
Dondolandoti sull’amaca, tra le dita un
romanzo, hai immaginato un paesaggio, i
lineamenti di un uomo, il rumore di un’autostrada caotica. Poi ti sei seduto su
una poltroncina rossa e mentre i rumorosi vicini bisbigliavano che “il libro è
molto meglio del film”, sentendosi improssivamente intelligenti, tu hai assaporato dei nuovi
suoni, delle nuove sagome, e hai immaginato un pensiero, una sensazione, un
mondo nascosto che su carta avresti letto nero su bianco. Oggi forse, seduto
sullo scalino di una piazza, potresti toccare una città e ascoltare un racconto
diverso.
‘Nel campo dell’architettura e degli
oggetti, “informazione” vuol dire anche narrazione, immagine, design”.
Forse il “nuovo mondo “, virtuale, non è
tale in quanto coincidente con la
scomparsa della materia, con tanto di interesse per le sperimentazioni tanto fisiche (e quì forse abbiamo l’equivoco
numero uno – brivido di eccitazione) quanto “cinematografiche”, ma in termini
di valore intrinseco, percezione, manifestazione. Forse anche in questa virtualità
riprende importanza il simbolo, abbiamo un ritorno della cattedrale.
Chiave uno bis: il target e il simbolo, la
nuova cattedrale
Gehry ‘crede che l’epoca degli architetti
eroi, di Wright e Le Corbusier, sia esaurita: questo è il tempo in cui la gente
più numerosa si mescola assieme, per aiutarsi reciprocamente e far funzionare
le cose’ – quindi ‘monumentalismo come fatto civico, collettivo, della gente’
(più o meno “targettizzata”). Ma se è vero che il simbolo non è più rappresentativo
ma comunicativo-narrativo, da qualche parte a piè di pagina troveremo sempre il
nome del brand.
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