“Speriamo che domani sia fatto di 48 ore”, penso io, denti lavati e lenzuola stirate, finalmente ‘sotto le pezze’, dopo una giornata passata a fare tutto e a concludere niente. “Speriamo che domani sia fatto di 48 ore”, ed esprimo lo sciocco desiderio non alla maniera di uno “speriamo che un giorno di questi Brad Pitt mi sposi”, ma con la stessa naturalità dello “speriamo che domani non piova”. E forse qua abbiamo un problema.
Sia chiaro, il discorso non è “tutti insieme, democraticamente, dovremmo disporre di giornate più lunghe”, che ovviamente lascia il tempo che trova, semplicemente “se domani per ogni ora altrui ce ne fossero un paio di mie, allora forse potrei andare a dormire più serena”. Molto più lineare, no? E ancora, non è “il mondo è diventato così frenetico che non ho più tempo di pensare ne’ di fare l’amore”, perché sarebbe una mezza bugia, un po’ come quando non hai mai soldi ma il pacchetto di sigarette sempre in tasca, ma è che c’è un mondo di spunti e di idee che è così veloce che io “ancora non so cosa voglio fare da grande”. Sempre più chiaro, giusto?
Ripartiamo da zero e poniamo l’ipotesi che, tra tutte, la mia crisi sia proprio quella del tempo. Crisi perché il mio sistema di riferimento non funziona più, è divenuto obsoleto, crisi perché mi pone in un momento di stallo. Crisi proprio perché anche solo scriverne mi manda nel pallone. Ovviamente non stiamo più parlando di quell’agognata giornata di 48 ore, per quanto, sia chiaro, rimanga uno dei miei più vividi sogni, ma sempre, in qualche modo, di un sistema di coordinate che non è più in grado di codificare la realtà attuale. O, se ci riesce, la staticizza. Una realtà fatta di continui impulsi, salti, ritmi sovrapposti in cui crisi è nell’inserimento del “quinto quarto” all’interno della battuta, nella necessità di visualizzare e percorrere lo spazio in funzione di questo nuovo tempo. Se l’automobile prima accorciava gli intervalli, dando luogo ad un nuovo sistema-tempo su cui aveva senso regolare gli spazi, oggi quella stessa automobile, in una realtà come Roma ad esempio, non è più mezzo veloce, “vedo quello che riesco a fare, dipende dal traffico”, ed acquista un tempo diverso. Così come si inserisce un nuovo tempo, il tempo-informazione che è anche il tempo- pensiero e costruzione del pensiero, che strabilisce un ritmo fino a poco fa inimmaginabile, in continua tensione, ed un ritmo-umano, che sembra quasi costretto nello spazio. La nuova percezione del tempo, immediata, aritmica e soggettiva, come influenza la percezione dello spazio?
Ora essendo poco chiara la natura della crisi, certamente poca fortuna avrà la ricerca di un’ipotetica soluzione. Ma sicuro è che, se la nuova struttura-tempo è percepibile proprio perché il tempo-informazione fornisce un riferimento dimensionale così potente da ribaltare tutti i “tempi precedenti”, allora è proprio nella comprensione di questo e del suo rapporto con lo spazio, il movimento, lo strumento e il contenitore, che si può ipotizzare una nuova “codificazione” della realtà.
Uno spunto, una modalità di approccio:
Bernardo Secchi scrive: “Le loro (urbanistica e architettura) difficoltà hanno a che fare con la drammatica separazione dei tempi degli individui e della società, sempre più accelerati, e quelli più lenti degli oggetti che occupano lo spazio abitabile; tra i differenti idioritmi dei soggetti e la differente durabilità degli oggetti (...) Nel crescente interesse di fine secolo delle politiche urbane, degli urbanisti e degli architetti per le questioni ambientali vi è certamente la curiosità per un tema relativamente nuovo, ma vi è forse anche qualcosa di più: il tentativo di inserire, tra un tempo sociale sempre più accelerato e il tempo più lento della città fisica, un tempo intermedio, il tempo della natura, degli alberi, delle piogge, delle stagioni, del sole, del vento e delle maree, un tempo cui si dà il compito di costruire un legame tra i ritmi della società e lo spazio abitabile cercando, ancora una volta, di legare il presente ad un futuro più distante”.